Seconda pace tra Pisa e Aragona – 1326
di Sergio Sailis
(*) Il termine "valletti" utilizzato nella traduzione non è tuttavia dei più precisi in quanto la parola "servents" più propriamente indicava i soldati di fanteria che in genere era composta da lancieri e da balestrieri.
[3] Pasquale TOLA, Historiae
patriae monumenta - tomo X: Codex diplomaticus Sardiniae, tomo I, Torino 1861, doc.
XXXII, pag. 679.
[4] Crònica di Ramon Muntaner.
[5] La traduzione è a cura di Maddalena Corrias in Giuseppe MELONI, La conquista della Sardegna nelle cronache catalane (R.Muntaner e Pietro IV d'Aragona), Nuoro 1999.
di Sergio Sailis
Poco dopo la pace del 19 giugno 1324
tra Pisa e Aragona, anche se per un breve periodo, ripresero le ostilità tra i due
contendenti finchè i pisani dovettero arrendersi definitivamente. Si addivenne
quindi alla pace conclusiva dell’aprile 1326[1] e nel
successivo mese di giugno i Pisani furono costretti ad abbandonare la città di
Cagliari.
Tra le varie pattuizioni oltre alla
definitiva rinuncia alla città di Cagliari vi era anche quella riguardante
direttamente la Trexenta ossia la concessione ai toscani di questa curatoria e
di quella di Gippi (che rimasero ai pisani ancora per una quarantina d’anni)
però a semplice titolo di feudo[2].
Le due curatorie venivano concesse con
il mero e misto imperio con giurisdizione alta e bassa e franche da servizi e
censi e con la possibilità di esportare le merci sulle quali doveva comunque
essere versati i diritti dovuti:
“Et insuper ex causa ejusdem tractationis dicti domini Rex, et Infans concesserunt,
et dederunt Sindicis supradictis recipientibus nomine jam dicti Comunis in
feudum absque aliquo servitio, et censu dando vel solvendo aut faciendo, villas
et terras sitas in curatoriis de Tragenta et de Ghippi, que sunt in Iudicatu
Kallari, cum hominibus et feminis in ipsis villis et locis habitantibus, et habitaturis,
et cum possessionibus, et terris cultis, et heremis in predictis curatoriis
situatis, et cum jurisdictionibus, redditibus, proventibus, et pertinentiis
earundem, et cum mero et mixto imperio, et omni jurisdictione alta et bassa,
quam dominus Rex et dominus lnfans, aut officiales dictorum domini Regis et D
Infantis dabunt officialibus Comunis Pisani, ut ad eorum acquisitionem, omnem
favorem per quem Comune Pisanum, et eius officiales jura sua integre habere
possint ab hominibus dietarum villarum et terrarum; et officiales sui jura
dicti Comunis possint consequi, et officia libere exercere.”
Vi era inoltre il divieto di non
costruirvi fortificazioni nei luoghi preminenti (salvo non fossero in villaggi
già situati su alture) anche se comunque era consentito costruire case alte destinate
all’alloggio dei funzionari, a magazzini di derrate e a carceri però a
condizione che fossero prive di fossati, steccati e bertesche:
“Dictum vero Comune, vel aliquis, vel aliqui pro eo non possint ullo unquam
tempore constituere castra, vel fortilitias aliquas in dictis curatoriis, vel
parte ipsarum.
Possint tamen dictum Comune, et ejus officiales in dictis curatoriis domos
eminentes, et fortes facere, absque fossatis et steccatis et berteschis pro
personis suis, et fructibus dicti Comunis, et in carcerandis criminosis, et
aliis tutius conservandis, dummodo non fiant in montibus, sive roccis, nisi ipse
ville jam essent in montibus sive roccis situate; quo casu possint fieri per
modum supradictum.”
Nonostante nel trattato fosse consentito
ad alcune categorie di residenti di restare a Cagliari e nelle sue appendici “Et quod burgenses et habitatores dicti
Castri Kallari, et appenditiarum eius, et Villenove, Stampacis, et Hortorum predictorum
, qui remanere et esse voluerint in dictis locis, possint in eis remanere et
esse, et eorum bonis gaudere, et tractentur ibi benigne, rationabiliter, atque
iuste.”[3] molti pisani preferirono comunque abbandonare
definitivamente la città.
Castell de Caller nel 1358 |
Così il cronista Ramon Muntaner
(contemporaneo ai fatti anche se però probabilmente non mise mai piede in
Sardegna) riporta la triste uscita dei pisani dalla Porta del Mare diretti
verso il porto per imbarcarsi su navi messe a disposizione dagli ufficiali regi
mentre i vincitori iberici, e l’alleato Ugone II d’Arborea, entravano in forze
dalla porta di San Pancrazio per prendere possesso della città: “E los
missatges de Pisa parlaren ab aquells del castell de Càller, e dilluns, nou
dies de juny de l’any de l’encarnació de nostre Senyor mil tres-cents
vint-e-sis, ells reteren lo dit castell de Càller al dit senyor rei d’Aragon, e
per ell al dit jutge d’Arborea, e al dit noble En Berenguer Carròs, e als
altres qui en lo dit castell de Càller entraren ab ben quatre-cents cavalls
armats e ab ben dotze mília sirvents, tots catalans. E entraren per la Porta de
Sant Brancaç, e els pisans eixiren per la Porta de la Mar, e recolliren-se en
quatre tarides e una nau que els oficials los hagren aparellades, qui els
portaren en Pisa.”[4]
“E i messaggeri di Pisa parlarono
con quelli del castello di Cagliari, e il lunedì, nono giorno di giugno
dell’anno dell’incarnazione di Nostro Signore 1326, essi consegnarono il
castello di Cagliari al signor re d’Aragona, e per lui al giudice d’Arborea, e
al nobile don Berenguer Carroç, e agli altri che entrarono nel castello di
Cagliari con ben quattrocento cavalieri armati e con ben dodicimila valletti(*),
tutti catalani. Ed entrarono per la porta di San Pancrazio, e i Pisani uscirono
per la porta del Mare e si imbarcarono su quattro taride e su una nave che gli
ufficiali avevano preparato per loro e che li portò a Pisa.”[5]
Coloro che optarono per restare in
città tra i quali molti che, nonostante fossero pisani o di origine pisana,
avevano parteggiato per gli iberici sarebbero stati espulsi dopo qualche tempo
e le loro case assegnate a catalani successivamente alla decisione regia di
abbandonare Bonaria e fare di "Castell de Caller" la nuova capitale del Regno di Sardegna e Corsica.
[1] Pasquale TOLA, Historiae
patriae monumenta - tomo X: Codex diplomaticus Sardiniae, tomo I, Torino 1861,
doc. XXXII, pag. 677.
[2] Pasquale TOLA, Historiae
patriae monumenta - tomo X: Codex diplomaticus Sardiniae, tomo I, Torino 1861, doc.
XXXII, pag. 679.[4] Crònica di Ramon Muntaner.
[5] La traduzione è a cura di Maddalena Corrias in Giuseppe MELONI, La conquista della Sardegna nelle cronache catalane (R.Muntaner e Pietro IV d'Aragona), Nuoro 1999.
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